Pubblicato in 2022, Le notizie del portale a buon diritto il 14 dic, 2023

Perché la Nigeria non è un paese sicuro

Perché la Nigeria non è un paese sicuro | A Buon Diritto Onlus

Un approfondimento di Enrica Muraglie per il progetto Look Up, svolto da A Buon Diritto in collaborazione con Arcs culture solidali e finanziato dall'Agenzia italiana della gioventù


La questione del Biafra.

Kelechi sgrana i suoi occhi lucenti. Ha una postura composta, elegante. “ Posso fare io una domanda a te? Hai mai sentito parlare del Biafra?” chiede con un sorriso. La regione a oriente della Nigeria è nota soprattutto per il disastro umanitario seguito al blocco degli approvvigionamenti da parte del governo federale nigeriano. La catastrofe raggiunse i media con reportages e fotografie. Le immagini mostrate in Occidente erano così forti che l’espressione “magro come un bambino del Biafra” entrò nel vocabolario di molte lingue europee. Kelechi fa parte dell’etnia Igbo, che lamenta una forte marginalizzazione della propria comunità da parte del governo nigeriano. Ha 31 anni e si definisce “igbo con orgoglio”. Sostiene il diritto alla secessione del Biafra.

Il termine Biafra deriva proprio dalla lingua igbo e significa accoglienza, ospitalità. Tuttavia, la secessione del Biafra fu la causa primaria della guerra civile nigeriana, conosciuta anche come guerra del Biafra. Nella scheda redatta dagli Uffici territoriali del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale sulla Nigeria come Paese sicuro, documento ottenuto da A Buon Diritto a seguito di FOIA, si legge che “Dal marzo 2021 sono parzialmente ripresi nel Sud-Est del Paese gli attacchi armati da parte di gruppi indipendentisti di etnia Igbo, che si richiamano alle aspirazioni secessioniste della sedicente regione del Biafra che scatenarono la guerra civile nel 1967-1970. Gli attacchi sono quasi esclusivamente diretti contro esercito e Polizia e hanno luogo nei cinque Stati a maggioranza Igbo: Ebonyi, Enugu, Anambra, Imo e Abia”.

In Nigeria si parlano più di 500 lingue e più di 250 etnie e dialetti. Ci sono culture, ideologie e modi di pensare diversi. “Gli igbo non si sentono parte della Nigeria perché sono stati marginalizzati”, racconta Kelechi. “Le recenti elezioni sono state chiaramente vinte da Peter Obi, un uomo igbo, ma non avrebbero mai permesso a un igbo di governare la Nigeria”. Il presidente emerso vincitore è Bola Tinubu, che appartiene a un partito politico progressista e guida la Nigeria dal febbraio di quest’anno.

Kelechi spiega che tutta la parte Est della Nigeria è molto militarizzata. Anche a Lagos, i beni e le proprietà degli igbo vengono sistematicamente distrutti. “Ho lasciato la Nigeria perché voglio lavorare qui con le istituzioni religiose ma vorrei fare un appello: le autorità italiane dovrebbero considerare come stanno gli igbo e come sta il Biafra”. E prosegue: “Non c’è solo Boko Haram. Dovreste dimenticare la Nigeria vista in quello o quell’altro modo. La Nigeria sta affondando. Dovreste avere uno sguardo anche sulle agitazioni in Biafra”. 


Non solo vittime di tratta

La Nigeria è tristemente nota per il fenomeno della tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Francesca De Masi, vicepresidente della Cooperativa Sociale BeFree, riflette sul corpo femminile migrante nel corso dell’ultima edizione della Scuola Politica estiva della cooperativa, lo scorso agosto. “I corpi violati sì, dallo Stato. I servizi, i tribunali, imbrigliano le donne in dei percorsi di depauperamento delle risorse storiche, quotidiane e di vita che queste donne si portano dietro”. De Masi racconta la storia di una donna nigeriana arrestata perché coinvolta in un giro di riciclaggio di denaro e spaccio. La donna era detenuta insieme ai figli, ed è una ex vittima di tratta. La Polizia Penitenziaria scrisse una relazione al Tribunale Per I Minorenni, sulla base della quale fu decretata la sottrazione della custodia dei bambini alla madre nell’agosto del 2021. A maggio 2022 la donna è stata assolta dalle accuse. Per due anni non ha potuto rivedere i figli. Riflettendo su cosa potrebbe fare l’anti tratta, De Masi chiede di togliere di dosso a queste persone il senso di alterità che provano quando arrivano in un contesto italiano. “ Togliere un po’ questo senso della frontiera perenne che rimane anche dopo che una donna è salva, dopo che il confine lo ha già attraversato”. Smettere dunque di considerare le donne come mere vittime, incapaci come madri e come lavoratrici. Vittime di tratta o nient’altro.

Vanessa Montante, coordinatrice del ramo catanese dell’associazione Penelope Non Tratta (PNT), riporta che “Oggi le donne nigeriane non vogliono più essere identificate come vittime di tratta, c’è un rifiuto categorico. Vorrebbero togliersi questo status”. La tratta delle donne dalla Nigeria non è affatto scomparsa: nel 2022 le persone vittime di tratta sono ancora, nel 57,4% dei casi, di provenienza nigeriana (DPO-SIRIT 2022). Molte di queste non aderiscono al programma di protezione perché sono stanche di essere etichettate in tutto il mondo come vittime di tratta. “Non c’è adesione perché non c’è riconoscimento, come succede a molte donne vittime di violenza domestica. In questi casi si lavora con l’accompagnamento nei disbrighi pratici, con le emergenze in ospedale, per cercare di costruire un rapporto di fiducia. Quindi molte volte è un lavoro a lungo termine, continua anche oltre il periodo del programma di protezione”. I dati rilevati dagli enti anti tratta italiani contrastano con quelli registrati dalle autorità. Questo dimostra l’insufficienza del lavoro delle istituzioni nella prevenzione e contrasto del fenomeno della tratta. Le misure di protezione messe in atto, infatti, non proteggono le vittime di tratta dalle possibili conseguenze penali cui vanno incontro per le attività illecite che sono costrette a commettere. Per esempio, la reclusione dovuta al coinvolgimento nel traffico della prostituzione. Il caso di Susan John lo dimostra: 43 anni, di origine nigeriana, la donna era stata condannata a luglio scorso nell’ambito di un’indagine sulla prostituzione minorile. Si è lasciata morire di fame nel carcere di Torino, lo scorso 11 agosto. Un’invisibile che viene sottoposta a un ulteriore isolamento, quello della detenzione. Anche quando riescono a rientrare in Nigeria, le vittime di tratta sono sottoposte a una fortissima marginalizzazione sociale. Se l’Italia dimostra di avere mezzi insufficienti per proteggerle, la Nigeria è ancor meno sicura per loro.

Abbiamo anche rilevato che per molte donne vittime di tratta ci sono procedimenti aperti al Tribunale Per I Minorenni. Ci siamo rese conto che il nostro punto di vista è prevaricante, perché ritenuto giusto, non obiettabile e alle volte non riusciamo a trovare un compromesso con chi vive, ad esempio, la maternità in un altro modo, che non è sbagliato ma semplicemente diverso” conclude Montante.


Sfruttamento lavorativo

Il fenomeno della tratta avviene però anche a scopo di sfruttamento lavorativo. “Siamo partiti da Scordia, nella zona del Calatino, da una ex fabbrica di incassettamento delle arance abbandonata, che diventava dimora di lavoratori stagionali per lo più irregolari”. Montante racconta di un fabbricato privo di qualsiasi servizio igienico, fornitura di elettricità e di altra sorta. Lì vivevano migranti di nazionalità prevalentemente tunisina e marocchina. In quel luogo, è stato attivato un progetto finanziato da una fondazione privata, a cui in seguito si è aggiunta la Croce Rossa.  È stata costituita una comune dove i lavoratori possono vivere temporaneamente. Non è un qualcosa di definitivo, non potrebbe mai esserlo, la speranza è ovviamente quella di una situazione abitativa più stabile. “Abbiamo cercato di capire come queste persone vivono il caporalato, come proteggerli. Lo stesso stiamo cercando di fare su Paternò, mappando gli insediamenti formali. Finita la stagione lavorativa, notiamo che si spostano nel ragusano per la raccolta di pomodori”. Ci sono circostanze denunciabili, che permettono di accedere all’art. 22, il c.d. permesso di soggiorno previsto per lo sfruttamento lavorativo. Ma anche situazioni dove non esistono gli estremi per una denuncia. Per queste, si cercano altre strade. Molte di queste persone sono in Italia da anni, hanno fatto richiesta di asilo, talvolta respinta, e il ricorso viene spesso rigettato. Un percorso per cui si sono esauriti tutti gli strumenti possibili. “Lì ci vengono in aiuto le storie, perché ricostruire le storie significa, nella maggior parte dei casi, risalire a esperienze di tratta o di grave sfruttamento, e cercare di fare una richiesta d’asilo reiterata laddove ce ne siano i presupposti”.


LGBTQIA+

La Nigeria non è un Paese sicuro neanche per le persone LGBTQIA+. La possibilità di avere relazioni omosessuali non è neanche immaginata. Molte persone fuggono dalla Nigeria per persecuzioni dovute all’orientamento sessuale o all’identità di genere. “La comunità LGBT è stata oggetto di soprusi, minacce ed estorsioni, e forme di discriminazione anche gravi continuano a persistere, in particolare nelle aree rurali. Nel 2014 è stato emanato il Same Sex Marriage (Prohibition) Act che prevede ipotesi di reato penalmente perseguibili. Sono inoltre proibite le manifestazioni pubbliche di affetto tra persone dello stesso sesso”, si legge sulla scheda della Nigeria come Paese sicuro. Gravissimi gli atti di violenze, abusi e criminalizzazioni che subiscono le persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali. Spesso queste azioni rimangono nel silenzio, non denunciate per sfiducia rispetto alle misure adottate dalle Autorità. Le discriminazioni investono anche l’accesso alla salute e al lavoro: licenziamenti improvvisi e ingiustificati, rifiuto d’assunzione, impossibilità di fare uno scarto di carriera. Nelle carceri la situazione è esasperata: le persone LGBTQIA+ vivono in celle affollate e in scarsissime condizioni igienico-sanitarie.

Marina De Stradis, Avvocata e consulente legale di A Buon Diritto Onlus, racconta la storia di una donna lesbica nigeriana, richiedente asilo. La commissione territoriale che esaminò la sua domanda di protezione internazionale, qualche anno fa, la sottopose a domande intime, private e invasive della sfera personale. Le negò poi la protezione ritenendo il suo racconto non credibile. La donna non raccontò in sede di commissione quali rischi avrebbe corso in Nigeria ma fece presente che non avrebbe potuto portare avanti la relazione con la compagna nel suo Paese, né tanto meno comunicarla alla propria famiglia. La Nigeria non faceva parte della lista dei Paesi sicuri all’epoca della sua intervista in commissione territoriale. Tuttavia, alla donna venne negata qualsiasi forma di protezione, che le è stata poi riconosciuta in sede giudiziale in quanto vittima di tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Questo ci racconta quanto le autorità italiane fatichino a garantire una tutela alle persone migranti LGBTQIA+.

Alla luce di quanto indicato e con riguardo alle disposizioni dell’art. 2-bis del d. lgs. n. 25/2018, si ritiene la Nigeria quale Paese di origine sicuro, ma con situazioni di particolare criticità e rischi di involuzione della situazione, circostanza che rende necessario un monitoraggio costante”. Così il governo italiano introduce la Nigeria nella lista dei cosiddetti Paesi sicuri, con il Decreto del Ministero dell’Interno uscito a marzo di quest’anno. Quando un luogo è considerato sicuro, si parte dal presupposto che non si abbia motivo né di abbandonarlo né di chiedere protezione internazionale. Questo discorso ha conseguenze considerevoli non solo sul piano giuridico ma soprattutto su quello culturale, cioè sulla percezione che ha l’opinione pubblica rispetto alle pratiche di accoglienza. Questa parola, che assume oggi una connotazione negativa, intrisa di patriarcato e paternalismo, ha nella sua etimologia un profondo senso comunitario. Colligere, mettere insieme, ammettere nel proprio gruppo. Soprattutto se quello da cui si fugge non è affatto un paese sicuro.