Pubblicato in 2017, Le notizie del portale a buon diritto il 16 mar, 2017

Fine vita, intervista a Luigi Manconi: Alla Camera spettacolo deprimente, ma il dibattito diventerà incandescente

Fine vita, intervista a Luigi Manconi: Alla Camera spettacolo deprimente, ma il dibattito diventerà incandescente | A Buon Diritto Onlus

boss3Huffington Post, 14 marzo 2017

di Alessandro De Angelis

Senatore Luigi Manconi, il biotestamento una sua battaglia storica.
Gi Nel 1996 presentai il primo disegno di legge sul testamento biologico e nessuno, proprio nessuno, tra parlamentari e giornalisti, sapeva cosa fosse. Poi, sono stato fuori dal Senato per 12 anni e quando vi sono tornato, nel 2013, la sensibilit collettiva e anche l'attenzione del Parlamento erano certamente cresciute. E, tuttavia, temo che un esito positivo sia ancora lontano.

La sensibilit collettiva, magari nel paese, per lAula vuota della Camera, dice tutto. Diciamoci la verit, neanche questa volta ci sono le condizioni politiche per approvare una legge. Siamo alle solite: i laici, i cattolici, un governo senza un programma.
Certo, lo spettacolo offerto dalla Camera stato davvero deprimente, ma non alimentiamo conclusioni sbrigative. Il dibattito si animer e pu diventare addirittura incandescente su alcune questioni cruciali.

Quali?
Il punto pi controverso il giudizio sulla nutrizione e sull'idratazione artificiali: secondo la massima parte della letteratura scientifica e secondo la Societ italiana degli specialisti della materia, si tratta di misure terapeutiche. Dunque, sospendibili se configurano accanimento. Ma c una minoranza che le considera sostegni vitali: eppure nutrire e idratare artificialmente non significa dar da mangiare pane e companatico e fornire bevande, ma comporta trattamenti sanitari delicati. Terapie, cio, e in quanto tali rinunciabili. Il conflitto sar su questo, ma vedo interessanti novit nella pi recente bioetica cattolica e nella nuova Carta per la pastorale della salute. Spero che i parlamentari che si dicono cattolici intendano e ascoltino tali novit.

Le sue argomentazioni sono scientificamente argomentate e magari anche condivisibili, ma sinceramente: lei vede la volont politica di affrontare il tema in questo scorcio di legislatura su un tema del genere?
Temo di no e sarebbe grave perch significherebbe frustrare per chiss quanti anni ancora le attese dei cittadini e ignorare indecentemente le sofferenze di tanti.

Il Lingotto stata lennesima celebrazione del Pd inteso come partito di Renzi. Le chiedo, senza tanti giri di parole: si pentito di non aver lasciato il Pd?
Andiamo con ordine. Nel giugno del 2016 fui tra i 12 parlamentari del Partito democratico che dichiararono che avrebbero votato No al referendum del 4 dicembre. Ci dopo che avevo seguito in genere le indicazioni del partito e nonostante numerose ragioni di dissenso, sempre rese pubbliche da parte mia, nei confronti della leadership renziana: dal Jobs Act allimmigrazione, al tema del garantismo.

E questa storia.
Preferisco pi modestamente parlare di cronaca. Ma mi faccia completare il ragionamento. Il dopo referendum ha accentuato il mio dissenso e per lincredibile rifiuto di analizzare criticamente ragioni e proporzioni della sconfitta, e per lostentata indisponibilit a perseguire l'unit del partito, gi cos periclitante. Quando si verifica una scissione, le colpe - fin troppo banale dirlo - non sono mai da una parte sola. Ma responsabilit primaria del leader esercitare un ruolo di aggregazione, di composizione dei conflitti, di riconoscimento pieno delle differenze, di garanzia per il pluralismo interno. Renzi ha svolto un ruolo esattamente opposto.

Lingotto compreso, segnato dalla rimozione del 4 dicembre.
E questo mi parso sinceramente molto grave. Tuttavia, per rispondere alla domanda sulla scissione, continuo a nutrire molte resistenze rispetto a tutte le forme di divisione che portino a frantumazione organizzativa.

Perch? Lei non cresciuto nel mito del grande partito, con le sue regole, la sua liturgia, la sua disciplina, a cui estraneo il concetto il rottura, perch extra ecclesiam, nulla salus
Certo. E, infatti, quando sento dire: "questo partito casa mia, non mi lascer cacciare" o frasi del genere, non mi ci ritrovo. Non attribuisco a un partito il senso di una comunit religiosa, e tantomeno di una comunit terapeutica, e nemmeno quello di una famiglia allargata. E, infatti, mai come quando il Pd si disgrega, si sentito parlare cos tanto di comunit. Ritengo piuttosto il partito come uno strumento destinato a perseguire un programma e dove vigano i principi del rapporto tra maggioranza e minoranza e le regole del confronto democratico. Gli scopi del Pd oggi non mi sono chiari e le regole vengono troppo spesso ignorate. D'altra parte, ho appena compiuto 69 anni e, allo stesso tempo, mezzo secolo di militanza politica. Sono stato nel movimento degli studenti, in Lotta continua, nel dissenso politico-intellettuale raccolto intorno alla rivista Antigone con Massimo Cacciari e Rossana Rossanda, poi con gli ecologisti. Nel 1999 ero il portavoce nazionale dei Verdi e il giorno stesso della sconfitta alle europee, mi dimisi. E mi resi conto di aver definitivamente consumato una lunghissima esperienza di minoritarismo politico.

Appunto.
Qualche anno dopo, Piero Fassino mi chiese di diventare il responsabile per i diritti civili dei Democratici di sinistra. Avevo maturato, insomma, la convinzione che per la sinistra e per le idee di sinistra fosse indispensabile un partito largo, plurale e pluralista, capace di accogliere e combinare diverse tradizioni e diverse culture, comprese quelle pi radicali, ma finalizzato a governare grazie a un ampio consenso popolare. Dunque accettai convintamente la proposta di Fassino e continuai a pensare che il dissenso, le opzioni libertarie e anche quelle estreme dovessero stare dentro quel partito o comunque nei suoi pressi. Contribuirono a questo sia la frustrante esperienza della sinistra arcobaleno del 2008 - la pi ampia "adunata dei refrattari" mai realizzata - accreditata del 10-12% nei sondaggi e ridottasi a poco pi del 3 per cento nelle urne. E, poi, lo studio delle vicende del Labour party, dove personalit radicali come Ken Livingstone e Geremy Corbyn resistono dentro al partito per decenni, vengono sconfitte, talvolta espulse, vi rientrano e talvolta vincono, senza mai promuovere scissioni. Insomma, l'idea di ripercorrere l'itinerario di un nuovo minoritarismo che, oltretutto, mi sembra destinato a non raccogliere molti consensi nel Pd, tanto pi mentre in qualche misura si riaprono i giochi persino rispetto alle primarie, mi ha indotto a rimanere nel partito.

Bene, ma venendo alloggi. Lei dice: non c analisi della sconfitta, non c leadership inclusiva, ho votato no, il no ha vinto ma il segretario parla come sei mesi fa, ma resto dentro per costruire una alternativa come nel Labour. Ma questo il punto: lei non crede che la mutazione genetica sia gi avvenuta e che il Pd sia gi unaltra cosa?
Non amo la formula "mutazione genetica" e non credo che i processi di cambiamento gi avvenuti e quelli in corso dentro il PD siano irreversibili. la stessa realt sociale, con le sue sofferenze e le sue iniquit, a interpellare imperiosamente il partito. E il PD non pu sottrarsi, persino nonostante la sua leadership. In ogni caso, e purtroppo, lo spirito di scissione mi sembra una patologia incurabile, se solo si pensa che altre micro scissioni avvenute appena qualche tempo fa hanno dato vita, a loro volta, a una ulteriore polverizzazione. E cos abbiamo avuto, nel Pd scissioni di una sola persona o due: un fatto eccezionale nella storia del movimento operaio di tutto il mondo e di tutti i tempi. Anche per questo, in un colloquio con Repubblica, ho citato il Don Backy del 1965: "ho rimasto solo". Non esclusivamente per ribadire una mia condizione di relativa estraneit, ma anche per segnalare attraverso quel refuso intenzionale una sorta di scarto del linguaggio politico e di sgrammaticatura di tutte le forme partitiche tradizionali.

Orlando il suo Corbyn?
Figuriamoci. E, d'altra parte, Corbyn non una mia icona. Sostengo la candidatura di Andrea Orlando perch quello che esprime una pi coerente posizione garantista. E sulla questione carceraria, tra qualche tentennamento e nonostante le vischiose resistenze presenti nel governo e in parlamento, ha provato seriamente a introdurre alcune novit.

A proposito di garantismo. Non pensa che stia diventando un alibi nel caso Lotti? Nel senso che c una questione di opportunit politica che prescinde dalla vicenda giudiziaria.
Penso che Luca Lotti non si debba dimettere, qualora la sua condizione resti quella dell'indagato. E non trovo nemmeno pertinenti gli inviti a farlo "per il suo bene". una scelta tutta e solo personale. E come tale spetta esclusivamente a lui. E lo stesso vale a proposito del criterio dell'opportunit politica. D'altra parte, questa mi sembra un'ottima occasione per tentare di distinguere nettamente e finalmente la sfera politica da quella giudiziaria.

Scusi, ma cos non la distingue. Se uno indagato pu restare, se condannato invece si deve dimettere. Proprio cos si affida tutto alle sentenze. E la politica? Non crede che dallinchiesta Consip emerga una concezione familistica del potere, una Repubblica degli amici degli amici come disse Renzi sulla Cancellieri di fronte alla quale un passo indietro sarebbe opportuno?
Veniamo da alcuni decenni in cui si delegata la magistratura non solo a surrogare la politica (persino per le unioni civili e per il testamento biologico) ma anche a risarcire la sinistra delle proprie sconfitte politiche (come quelle subite a opera di Silvio Berlusconi). Ci ha reso la politica pavida e subalterna. Io voglio sconfiggere politicamente le idee di Lotti e la sua concezione del Pd: sar la magistratura a decidere se ha commesso o meno reati. Poi, evidentemente, qualora vi fosse una sentenza definitiva impossibile in uno Stato di diritto non trarne adeguate conseguenze. Per quanto riguarda il familismo di cui lei parla, la risposta inequivocabilmente si.

Torniamo al tema del Pd e delle alleanze, lei molto legato a Giuliano Pisapia.
Conosco Giuliano Pisapia dal 1988 e, da allora, abbiamo lavorato insieme su tante questioni. Dunque, c' un vincolo affettivo ma anche una fortissima ragione politica, politicissima: mi sembra che oggi sia l'unico in grado di funzionare da soggetto federatore, da leader che unifica, da promotore di unaggregazione pi ampia.

Dunque: Orlando segretario, Pisapia come nuovo Prodi. questa la sua proposta, se capisco.
Non so se Pisapia sar in grado di coordinare questo centrosinistra litigioso, egoista, animato da unirresistibile vocazione secessionista. Ma l'unico sicuramente che pu provarci. E il primo passo, quello di sabato scorso stato un buon passo: lo spazio dell'incontro stato dedicato interamente alle iniziative civiche, ai movimenti di base, ai soggetti sociali. emersa una grande voglia di politica. Va ascoltata e raccolta, non mortificata o dissipata ancora una volta. Poi leggo i giornali di oggi e vi trovo tutt'altro. Non sono il portavoce di Pisapia, ma mi sento di poter escludere che la prospettiva di Campo progressista sia quella di trovare un posto nelle liste del Pd per lui e per Laura Boldrini, ma nemmeno quella di fondersi, o qualcosa di simile, con i Democratici progressisti di Pierluigi Bersani. Che abbia successo o meno, il progetto, ve lo giuro, pi ambizioso.