Pubblicato in 2016, Le notizie del portale a buon diritto il 12 mag, 2016

Manconi: Unioni civili? Alla base resta sentimento omofobo

Manconi: Unioni civili? Alla base resta sentimento omofobo | A Buon Diritto Onlus

manconiReporter Nuovo, 12-05-2016

Lorenzo Gherlinzoni

Luigi Manconi, senatore dem, è stato tra i relatori della legge Cirinnà, ma alla fine non l’ha votata: «Quello di ieri è stato un passo positivo, ma monco. E il mancato obbligo di fedeltà per le coppie omosessuali è terrificante e immorale»

Luigi Manconi, 68 anni, senatore PD e una vita passata a sinistra. O, per meglio dire, un radicale dell’estrema sinistra, come ha avuto occasione di definirsi alcuni anni fa. Il tema dei diritti delle minoranze, per lui, è questione di tutti i giorni. Vissuta sulla pelle. È presidente dell’associazione “A Buon Diritto”, che promuove l’esercizio di diritti riconosciuti dal nostro ordinamento e non adeguatamente tutelati. Ma c’è anche un’esperienza più intima e personale, un disturbo che,da dieci anni a questa parte, l’ha reso quasi cieco. Rendendolo partecipe delle difficoltà quotidiane dei tanti portatori di handicap italiani. Anche qualcosa di semplice come prendere il treno può nascondere difficoltà inattese. Un Paese che non sta attento alle proprie minoranze, l’Italia. Ma che ieri ha votato, dopo un travaglio di almeno vent’anni, la legge Cirinnà sulle unioni civili. Luigi Manconi è stato uno dei promotori della legge in Senato.

Il governo ha deciso di blindare il voto di ieri ponendo la questione di fiducia. Non pensa che un passaggio così fondamentale della società italiana avrebbe necessitato di un più regolare processo di discussione e approvazione?

«In via del tutto astratta sì. Ma in questo caso era necessario che la vicenda arrivasse, finalmente, a un esito finale. Non stiamo parlando di un provvedimento che non ha avuto occasione di essere dibattuto approfonditamente, direi quasi vivisezionato. Oltretutto, questa normativa ha una storia antica. Si pensi che io presentai il primo disegno di legge in materia nel 1996. Quella che può essere apparsa come una forzatura da parte del governo, è stata in realtà un passaggio inevitabile per evitare che si perdesse quanto di buono la nuova legge contiene».

La battaglia per il riconoscimento delle unioni civili è stata lunga e ha richiesto molti compromessi. Lei ritiene che la legge approvata ieri risponda in maniera soddisfacente alle istanze della comunità omosessuale italiana?

«Non è che non risponda in maniera soddisfacente alle richieste di quella comunità. Più semplicemente, non risponde in maniera soddisfacente a un’esigenza di eguaglianza. E questa richiesta di non discriminazione rientra in un’ispirazione generale della Costituzione di uno Stato di diritto come il nostro, che pretende parità di condizioni. Ma questa parità di condizioni non la si è raggiunta, con la legge approvata ieri. È un passo positivo, ma monco».

Si riferisce allo stralcio della stepchild adoption dal testo definitivo?

«Penso esattamente a quello, alla questione delle adozioni».

La legge Cirinnà ha approvato due istituti differenti, le unioni civili e le convivenze di fatto. Perché?

«È un fatto singolarissimo, che si spiega solo in termini ideologici. Vent’anni fa, quando s’iniziò a parlare di forme di riconoscimento giuridico per le coppie formate da individui dello stesso stesso, si riteneva fosse più intelligente pensare a un istituto che fosse applicabile tanto agli omosessuali quanto agli eterosessuali. S’immaginava che, così facendo, si potessero ottenere maggiori consensi e agevolare l’approvazione della legge. Io penso tuttora che quella scelta sarebbe stata più sensata. Ma contro questa soluzione emerse subito una forte resistenza da parte delle gerarchie ecclesiastiche, le quali temevano che, in tal modo, si potesse creare una forma di matrimonio laico. Dal momento che il loro obiettivo è sempre stato quello di evitare questo rischio, hanno ritenuto più opportuno non opporre resistenza all’unione civile per persone dello stesso sesso».

Non pensa che questa discrepanza a seconda di gusti e inclinazioni sessuali rappresenti un vulnus per la legge?

«Non è un vulnus. La definirei piuttosto un’involuzione capziosa, una macchinosa forma di differenziazione che risponde al fine di evitare un’autentica equiparazione delle unioni tra persone dello stesso sesso a quelle eterosessuali. È un artificio ideologico».

Perché nella legge approvata ieri non è previsto l’obbligo di fedeltà tra i contraenti dell’unione civile?

«Siamo sempre lì. Questo aspetto rientra in una concezione malsana, secondo la quale si può persino “cedere” all’introduzione dell’unione civile, purché a quest’ultima si affibbi uno stigma di immoralità. L’unione civile è la forma di rapporto tra due persone dello stesso sesso e dunque, per definizione, secondo quest’interpretazione retriva, due persone amorali, votate più al libertinaggio e all’adulterio che alla fedeltà e alla reciprocità. In questo elemento permane un’interpretazione regressiva che dimostra con quanta immaturità una parte della classe politica guardi al nuovo istituto. In realtà, due persone dello stesso sesso che vogliono un riconoscimento giuridico della loro unione sono mossi da un’istanza morale, cioè dall’esatto contrario di ciò che viene attribuito loro, non imponendo alla loro unione quel vincolo di fedeltà. L’obbligo è stato eliminato dal vincolo omosessuale perché, così facendo, s’intende attribuire a quella coppia un carattere di precarietà, di amoralità strutturale, d’incapacità di una reciproca obbligazione. A ben pensarci, è un qualcosa di terrificante e immorale. Al di là di un proclamato rispetto, rimane un robustissimo pregiudizio omofobo. Insomma, persiste l’idea che l’omosessuale sia una personalità deviante».

In una battuta, qual è il senso della giornata di ieri?

«Senz’altro un passo avanti. Parziale, ma pur sempre un passo avanti. Prima questa possibilità non c’era, adesso c’è. Io non ho votato la legge per come è stata presentata, ma sono contento che oggi ci sia. Non l’ho votata perché evidenziavo questi elementi di discriminazione. Il mio è stato un atto simbolico di dissenso».