Pubblicato in 2015, Le notizie del portale a buon diritto il 14 set, 2015

Stefano Cucchi, indagare sui carabinieri si può

Stefano Cucchi, indagare sui carabinieri si può | A Buon Diritto Onlus

Stefano Cucchiil manifesto, 12-09-2015
Luigi Manconi, Valentina Calderone

Giustizia . Si appuri la verità senza pregiudizi

E dun­que ave­vano ragione Ila­ria Rita e Gio­vanni Cuc­chi a chie­dere nuove e più rigo­rose inda­gini sulla morte di Ste­fano. Innan­zi­tutto per l’esistenza di un dato enorme che più che taciuto — per­ché tacerlo sarebbe stato impos­si­bile – è stato quasi com­ple­ta­mente rimosso: ed è il fatto che ben due sen­tenze hanno affer­mato che Ste­fano Cuc­chi ha subito vio­lenze e abusi, pur senza poter indi­vi­duare i respon­sa­bili, ma appunto avendo accer­tato che vio­lenze e abusi ci sono stati, inequivocabilmente.

Lo sco­ra­mento e la fru­stra­zione susci­tati da quei ver­detti, e deri­vanti tanto dalla vista delle foto del corpo stra­ziato di Ste­fano (non è neces­sa­rio essere un medico legale per spie­garsi cosa gli sia acca­duto) quanto dalle parole di impo­tenza scritte dai giu­dici (insuf­fi­cienza di prove, impos­si­bile accer­tare oltre ragio­ne­vole dub­bio i respon­sa­bili delle vio­lenze), non pos­sono essere facil­mente cancellati.

Nono­stante que­sto, oggi abbiamo almeno due ele­menti sui quali riflet­tere. Il primo, è che l’inchiesta bis sulla morte di Ste­fano Cuc­chi offre una con­ferma impor­tante: con­corda nel dire che non si è fatto abba­stanza e quel che si è fatto non si è fatto bene, e afferma la neces­sità di con­ti­nuare a inda­gare. Sia chiaro: non è ancora una svolta deci­siva, ma è un passo avanti.

La seconda evi­denza è che oggi si indaga all’interno di un altro corpo dello Stato. Ste­fano Cuc­chi, nei suoi sei giorni di deten­zione, ha com­piuto quella che noi abbiamo ribat­tez­zato una vera e pro­pria via Cru­cis: ha attra­ver­sato una lunga serie di luo­ghi isti­tu­zio­nali, incon­trando uomini in divisa, medici e infer­mieri, ope­ra­tori e volon­tari. È stato por­tato due volte nella caserma Appia, in quella di Tor Sapienza, nelle celle di sicu­rezza del tri­bu­nale di Piaz­zale Clo­dio e poi nell’ambulatorio, nel car­cere di Regina Coeli, nell’ospedale Fate Bene Fra­telli, poi nuo­va­mente in car­cere, que­sta volta in infer­me­ria, e infine nel reparto deten­tivo dell’Ospedale San­dro Per­tini. Molte tappe, che hanno rap­pre­sen­tato il suo calvario.

Sap­piamo le con­di­zioni in cui Ste­fano Cuc­chi ha comin­ciato que­sto per­corso: in salute, dopo aver lavo­rato tutto il giorno ed essere andato in pale­stra. Sap­piamo anche come que­sto per­corso sia finito: in un letto d’ospedale, cada­vere da ore senza che nes­suno se ne fosse accorto, con molti chili in meno attac­cati alle ossa e il ven­tre gon­fio di urina per via di un cate­tere posi­zio­nato male. Nel corso di que­sta ago­nia, molte per­sone hanno per­messo che quell’ingranaggio, con una incre­di­bile e col­pe­vole iner­zia, girasse fino a far sì che Ste­fano si “spe­gnesse” (così in un atto uffi­ciale). E ancora, fuori dall’ospedale, un medico rivolto a Rita Cuc­chi: “Signora, suo figlio si è spento”.

Ed ecco per­ché è tanto impor­tante appren­dere che la pro­cura di Roma ha deciso di inda­gare tra i cara­bi­nieri per­ché, di quei molti pas­saggi, que­sto è stato l’unico a essere igno­rato. Si è rea­liz­zata una sorta di cecità selet­tiva, gra­zie alla quale si è osti­na­ta­mente deciso, per anni, che quella parte della sto­ria non meri­tasse di essere inda­gata. Chie­dere di valu­tare la posi­zione di alcuni cara­bi­nieri non signi­fica “aver­cela con i Cara­bi­nieri” (e non che non ve ne sia qual­che ragione).

Ma pur­troppo, finora, ha pre­valso il pre­giu­di­zio esat­ta­mente spe­cu­lare, quello pron­ta­mente e fie­ra­mente pro­cla­mato dall’allora mini­stro della Difesa, Igna­zio La Russa, che qual­che giorno dopo la morte di Cuc­chi dichia­rava: “Non sono in grado di accer­tare cosa sia suc­cesso ma di una cosa sono certo: del com­por­ta­mento asso­lu­ta­mente cor­retto da parte dei cara­bi­nieri in que­sta occa­sione”. Che Dio lo perdoni.