Pubblicato in 2015, Le notizie del portale a buon diritto il 21 ott, 2015

Se la cura diventa tortura

Se la cura diventa tortura | A Buon Diritto Onlus

tortura3Enrico Cicchetti intervista Valentina Calderone su 180 gradi

17/10/2016

Al diritto è arrivata per caso, dice. E per una “strana”, invidiabile passione per gli atti giudiziari. Laureata in Economia e Commercio, Valentina Calderone inizia a lavorare per lo studio di un commercialista. Nel 2005, tra i bilanci e le fatture, c'è da tenere anche la contabilità di un'associazione. Si chiama “A buon diritto” ed è stata fondata nel 2001 da Luigi Manconi, il Presidente della Commissione diritti umani al Senato. L'associazione si occupa della tutela di chi è privato della libertà. Di migranti. Di antiproibizionismo e di fine vita.

Inizia a collaborare con loro. È lì quando arrivano i file con i primi atti giudiziari e le foto dell'autopsia di Stefano Cucchi, il geometra 31enne arrestato il 16 ottobre 2009 e morto una settimana dopo nel reparto di medicina del Pertini. La collega di Valentina sta seguendo un altro caso. La cartella la apre lei. Presta i suoi occhi al senatore Manconi, legge i documenti, sceglie le foto per la conferenza stampa. Inizia a occuparsi di questo in “A buon diritto”. Oggi ne è la direttrice.

Mattinata grigia, il cielo promette pioggia. Nella sede di “A buon diritto”, al quarto piano di un'elegante palazzina di Roma Nord, la luce fredda si stempera tra le alte librerie affollate, le pile di cartelline e documenti, tra poster e fumetti incorniciati al muro. Con Valentina Calderone ci incontriamo perché l'associazione sta seguendo gli ultimi casi di morte durante TSO e svolgendo una ricerca sulla contenzione in psichiatria. «Non esiste un registro unificato delle contenzioni - dice - e l'unica e ultima ricerca nazionale sul tema è del 2003. Poi nulla. Bisogna contattare le Asl, gli SPDC. È un lavoro lungo e complesso, anche perché le informazioni che cerchiamo riguardano una questione spinosa. E poi c'è sempre il problema dei soldi: trovare fondi per indagini del genere è davvero dura». Ad aiutarli infatti ci sono Sergio Mauceri, dell'Università Sapienza di Roma e anche Susanna Ronconi, esperta e docente alla Libera Università dell'autobiografia. Un caso è quello di una donna di Torino che ha trovato il coraggio di mettersi in contatto con loro per far luce sulla morte del fratello, avvenuta durante un TSO.

La storia apparentemente è semplice. La vittima è nel solito bar. Si arrabbia perché qualcuno ha parcheggiato sul marciapiede davanti al locale. Esce e si sfoga come può: taglia le gomme dell'auto. Poi se ne torna a casa. Ma ad aspettarlo ci sono i Carabinieri e l'ambulanza. L'uomo ha un arresto cardiaco e muore. Ordinaria amministrazione in un paese dove il TSO è usato sempre più come un mandato di cattura. “A buon diritto” ha seguito pure il caso di Katiusha Favero, rinchiusa, neanche trentenne, nell’Opg di Castiglione delle Stiviere per il furto di un orologio. Denuncia un medico e due infermieri per molestie e stupro. Viene rimandata in carcere: “la paziente non presenta alterazioni psichiche tali da giustificare la sua presenza in OPG”. La visita ginecologica conferma le violenze. Ma il certificato scompare misteriosamente. Scade la pena. Viene nuovamente dichiarata pericolosa e torna nell’Opg dello stupro. Legata a un letto di contenzione per i più futili motivi. Muore in un suicidio che lascia molti dubbi. Valentina Calderone sostiene che «la cura si trasforma in tortura anche quando si è impreparati ad affrontare questioni che non sono di sicurezza. Ma a ben vedere, in Italia affrontiamo così tutte le criticità. Abbiamo spostato completamente l'asse dell'intervento sociale: dalla prevenzione e tutela, dalla presa in carico precedente all'emergenza, siamo arrivati ad una questione di mera sicurezza. Se c'è assenza di servizi sul territorio, scarsa assistenza sociale, mancanza di lavoro, famiglie completamente abbandonate e percorsi di accoglienza fallimentari, la soluzione non può essere la repressione. Le carceri sono piene di tossicomani, di poveri, di immigrati. Vorrei che tutto quello che spendiamo per un sistema carcerario inefficiente potessimo spenderlo per mettere in campo azioni preventive. Vorrei anche che si aprissero i reparti, che si permettesse, a chi è privato della libertà per un TSO, di avere avvocati ».

C'è un filo comune nel lavoro di “A buon diritto”: la scarsa attenzione, nella migliore delle ipotesi, o una visione distorta, nella peggiore, delle modalità con cui alcune categorie sono trattate. Carcerati, immigrati, persone con disagio psichico. Depositari di minori garanzie rispetto al cittadino ben inserito. «Noi pensiamo che una maggior attenzione per la dignità di queste persone sia la cartina tornasole di una buona democrazia. È falso dire che la repressione porti maggior sicurezza. A dimostrarlo sono le statistiche. Più carcere, più recidiva. Nel 70% dei casi chi entra in galera è destinato a tornarci. E allora noi cittadini che incontriamo quell'ex detenuto per strada siamo i primi a essere meno garantiti. Ci viene fatto pensare, a livello mediatico e politico, che il pugno di ferro sia la soluzione. Ce lo fanno credere. Ci vincono le campagne elettorali. Bisogna invece cambiare il paradigma. E far sì che la spesa pubblica non sia indiscriminata, al di fuori degli obiettivi. Se i 3 miliardi di euro l'anno spesi per il solo sistema di esecuzione penale portano poi a tanta recidiva, il Ministero della Giustizia pensi a soluzioni alternative». Filippo Turati, nel suo discorso sulla questione penitenziaria alla Camera dei deputati il 18 marzo 1904 iniziava così: “Le carceri italiane rappresentano l'esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta. Le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti o scuole di perfezionamento dei malfattori”. Centodieci anni, e la questione è ancora lì.

Molti dei casi che l'associazione ha seguito (Aldrovandi, Cucchi, Uva, Ferrulli, tra gli altri) si sono risolti con l'archiviazione o l'assoluzione: “insufficienza di prove” o “il fatto non sussite”. Il fatto invece è spesso palese: percosse e violenze che portano alla morte di qualcuno. Il tema è delicato e complesso, ma di fondo pare esserci sempre un leitmotiv ricorrente, quasi un sistema: «la maggior parte di queste vicende – sostiene Calderone - dimostra che il problema non sono tanto i carabinieri o i poliziotti che fisicamente commettono quei gesti, quanto i colleghi che li coprono, i medici che si lasciano intimidire, i magistrati che fanno le prime indagini troppo tardi o in maniera approssimativa. Nel caso di Guerra (un altra morte per TSO di questo agosto), il magistrato incaricato non è neanche andato sul posto. Idem per Aldrovandi. Invece, ovviamente, le prime ore di un'indagine sono fondamentali».

Un sistema in cui lo Stato si ricorda di recludere, sorvegliare e punire, ma poi si dimentica di tutelare chi gli è stato affidato. E di sorvegliare ed (eventualmente) punire i controllori non se ne parla. «Sono pezzi che si sommano uno all'altro. Non ci vedi la responsabilità dei medici, ad esempio, quando per Uva un testimone allerta il 118 dicendo che “stanno massacrando un ragazzo” (le telefonate sono depositate agli atti) ma il 118 chiede conferma alla caserma e poi non invia nessun soccorso? O nel caso di Luciano Diaz, quando l'ambulanza non va ad aiutarlo, perché gli operatori sanitari dicono di conoscere già il suo caso e non ritengono di dover intervenire? Non c'è responsabilità dei magistrati nel caso Cucchi, quando dopo 6 anni si riapre un'indagine per capire cos'è successo nell'arco di tempo da lui passato in due caserme?» Probabilmente, dopo 6 anni, la “pistola fumante” non c'è più.

«Il sistema diventa palese se solo si pensa al fatto che da ben 25anni viene bloccato l'inserimento nel codice penale del reato di tortura. Il disegno di legge che è uscito adesso al Senato è perfettamente inutile. Se l'argomentazione dei suoi detrattori è ancora “chi vuole il reato tortura è contro la polizia”, allora non c'è proprio terreno di dialogo. Noi non siamo assolutamente contro la polizia. Anzi pensiamo che gli agenti che fanno il lavoro operativo siano i meno tutelati. Ma se sono stati destituiti poliziotti perché fuori servizio indossavano abiti da donna e questo “lede l'onore delle forze di polizia”, non capisco perché non venga tolta la divisa a chi ammazza gratuitamente un ragazzo di 18 anni».

Se è un sistema fatto così allora bisogna trovare il modo di scardinarlo. Valentina Calderone ha in mente qualcosa di concreto: «ci piacerebbe cercare di mettere in piedi un apparato di tutela legale. Ci sono alcuni problemi che si potrebbero risolvere. Intanto il fatto che gli avvocati che si occupano di queste vicende sono pochissimi. Sarebbe importante creare una rete grazie alla quale formare professionisti che si occupino in particolare di queste vicende. Ben “addestrati”, che sappiano già cosa fare, a quali consulenti tecnici di fiducia rivolgersi. Dovrebbe essere un lavoro standard, sistematico e sostenuto economicamente. Perché il secondo problema, appunto, è proprio la sproporzione riguardante le spese legali: se sei nelle forze dell'ordine il Ministero dell'Interno può pagare per te ed eventualmente rivalersi in caso di avvenuta condanna. Mentre molte famiglie coinvolte in queste vicende non hanno più niente. Si sono vendute la casa, la macchina, per pagare i legali. Immagina che una perizia può costare quattro, cinque, diecimila euro. Per questo ci interessa creare una rete di supporto legale. E sarebbe importante occuparsi anche dell'ambito psichiatrico: se entri in CIE o in carcere hai almeno la possibilità di accedere all'albo degli avvocati d'ufficio. Se sei sottoposto a TSO no. Ma tra la disposizione del TSO e la convalida passano almeno 48 ore: ci sarebbe spazio e modo di agire». Gioacchino Di Palma, parte civile di “Telefono Viola” (l’associazione contro gli abusi e le violenze psichiatriche) nel caso Mastrogiovanni, è riuscito a intervenire in alcuni TSO illegittimi. «L'ha fatto da privato cittadino: dicendo al magistrato incaricato che secondo lui non c'erano i presupposti. Il giudice ha intimato all'Asl di mandargli tutte le informazioni: quali farmaci sono stati utilizzati? Quali sono le misure alternative prese in precedenza? E, guarda caso, quella volta la Asl ha rilasciato immediatamente la persona».