Pubblicato in 2015, Le notizie del portale a buon diritto il 16 apr, 2015

Appunti di un turista leggero tra Gabes e Dakar

Appunti di un turista leggero tra Gabes e Dakar | A Buon Diritto Onlus

gabes e dakar16-04-2015
Lorenzo Fanoli

Sono stato diverse volte negli ultimi dieci anni in Tunisia e in Senegal.
Ci sono stato per brevi soggiorni e fondamentalmente in vacanza, per incontrare amici e per visitare il paese. Gli appunti che seguono quindi non sono frutto di experties particolari né pretendono di spiegare fenomeni e vicende complesse che avrebbero necessità di approfondimenti e consuetudini di ben altro spessore; scaturiscono da curiosità, da scambi con le persone che ho incontrato e che in questi paesi ci vivono, dalla lettura dei giornali, dall’ascolto delle discussioni colte per strada, nei luoghi pubblici ma, nonostante la loro “leggerezza”, penso possano essere di un qualche interesse.

QUALCHE ANALOGIA
Le ragioni per cui sono stato in Senegal e Tunisia non hanno apparentemente nulla in comune, ma riflettendoci credo che vi siano nei due paesi alcune analogie da tenere in conto.
La prima è che si tratta di paesi africani che, pur avendo anch’essi vissuto stagioni di conflitto politico duro e cambiamenti radicali del quadro politico, si sono risparmiati il coinvolgimento nelle diverse tragedie che si sono verificate e si stanno verificando nelle aree geopolitiche in cui si trovano (guerre, occupazioni e dominio dei territori da parte di organizzazioni terroristiche, genocidi, repressioni sanguinarie, instaurazione di tribunali religiosi, emergenze sanitarie).
Non che manchino conflitti a volte anche violenti e drammatici e forse non si può dire che possano essere considerati paesi caratterizzati da un sistema democratico compiuto e definitivamente affermato, ma la situazione che si vive al loro interno è decisamente diversa da quella che caratterizza i paesi che li circondano.

Sono sicuramente, paesi in cui è evidente il senso di un cammino in corso verso lo sviluppo sociale, l’affermazione di un sistema di governo democratico, la regolazione pacifica dei conflitti e della convivenza interreligiosa e inter etnica.
Si tratta di capire se essi rappresentano eccezioni destinate a diventare marginali rispetto a un futuro di “scontro tra civiltà” inevitabilmente destinato a determinare una netta divisione tra una società occidentale giudaico-cristiana, relativamente benestante, impaurita, in declino demografico e difesa militarmente, assediata da un insieme di società e paesi a guida islamista abitati da popolazioni povere, in crescita demografica, aggressive e mosse da un’aspirazione all’invasione e allo stravolgimento radicale di tale “equilibrio”, oppure un piccolo ma significativo avamposto di quello che potrebbe essere il futuro dell’Africa democratica.

L’altro elemento di carattere storico e geopolitico che potrebbe accomunarli è che sono due paesi ai margini del Sahara che in epoca premoderna costituivano (e

in parte ancora oggi costituiscono) la porta di ingresso e di arrivo dei traffici che attraversavano il Sahara, connettendo oriente e occidente nord e sud. Le popolazioni che li abitano sono più consone ad interessarsi ai commerci piuttosto che alle guerre.
Comunque la si veda ritengo che siano luoghi che devono essere considerati preziosi per il nostro futuro. Quindi penso che valga la pena anche di fare qualche sforzo per capire meglio alcune cose.

IL SENSO DELL’APPARTENENZA E L’IMPORTANZA DEGLI STATI NAZIONALI
E’ piuttosto diffuso un senso comune che guarda con timore e diffidenza ogni forma di nazionalismo (generalmente questa concezione riguarda il nazionalismo degli altri) ma il senso di appartenenza a un popolo, un territorio e una cultura più ampi rispetto ai confini della propria famiglia (o tribu’) comunità religiosa, di villaggio, regione, etnica rappresenta il primo elemento fondante della convivenza pacifica e il cemento della costruzione del senso di cittadinanza. La fine del colonialismo e della seconda guerra mondiale, ha consegnato all’Africa, confini tracciati artificialmente, non corrispondenti a nessun tipo di fenomeno e percorso di integrazione (anche conflittuale) della storia delle popolazioni che vivono nei territori definiti.

Tutta l’area a nord del Sahara è attraversata del confronto tra sciti e sunniti ma non so se sia solo questo il motivo che permette di “farsi stato” alle organizzazioni terroristiche.

Per quanto riguarda la regione Sahariana buona parte dei conflitti che riguardano l’area e che hanno permesso l’installazione, il consolidamento e l’affermazione di poteri dominati da formazioni terroristiche derivano da convivenze innaturali e dai conflitti per l’egemonia su stati e territori che forse dovevano essere, all’origine, già separati dal punto di vista amministrativo. Libia, Iraq, Siria, corrispondono con evidenza a questo schema, lo stesso vale per il Mali e il conflitto irrisolto con i Tuareg. Non ne so abbastanza invece su Nigeria e Kenya. Mi sembra però, a leggere anche commenti un po’ più seri di questo che l’esito delle elezioni in Nigeria e il suo riconoscimento da parte del presidente uscente possano essere un buon segnale anche nella prospettiva della lotta contro Boko Haram.

Inoltre è bene considerare in questo ragionamento che buona parte delle prospettive di una sconfitta del califfato in medio oriente sono sulle spalle dei combattenti per l’affermazione dei diritti della nazione Kurda. Così come il mancato riconoscimento dello stato di Palestina ha determinato l’affermazione di Hamas prima e ora sta aprendo la strada al dominio e agli orrori perpetrati dagli uomini di Isis nei campi profughi palestinesi.
La risposta che la Tunisia intera ha dato all’attentato del Bardo è stata un evidente dimostrazione della forza e del senso di appartenenza nazionale del suo popolo e l’antidoto migliore alla diffusione del terrorismo.

Solo il senso di appartenenza alla medesima nazione determina il consenso necessario che permette il monopolio dell’uso della forza alla polizia di stato. La lotta al terrorismo si combatte con le forze di polizia: è una lotta tra stato e anti-stato. L’opzione militare, anche se può costituire un’extrema ratio come lo è stata, ad esempio, nella risoluzione (ancora non definitiva) del conflitto maliano, non è da questo punto di vista del tutto adeguata. La possibilità di sopravvivenza politica e militare di formazioni terroristiche è direttamente correlata al grado di fiducia ed al riconoscimento che le popolazioni attribuiscono alle istituzioni che li governano, l’intervento militare soprattutto sotto forma di una occupazione operata da un esercito straniero, può risolvere momentaneamente il problema ma rischia anche di rafforzare le motivazioni che possono spingere ad aderire, svolgere o semplicemente non ostacolare azioni terroristiche.

Almeno per quanto mi riguarda credo che, pur con grandi cautele e senza dover per questo rinunciare all’esercizio della critica, debbano essere considerati con grande rispetto e attenzione tutti quei processi di emergenza e costruzione di stati nazionali anche se questo confligge con gli interessi economico-politici dell’occidente. Parimenti le garanzie e le tutele degli interessi e degli investimenti economici occidentali (che, va ricordato, non sono sempre illegittimi o di rapina) dovrebbero il più possibile essere tenute molto distinte e lontane dalla pretesa di influenzare il quadro politico e istituzionale. In questo abbiamo parecchio da imparare dai cinesi che con grande perseveranza e pervasività sono diventati il principale partner economico e commerciale del continente africano senza che questo finora abbia comportato fenomeni di evidente influenza sul quadro politico e istituzionale.

DOVE C’E’ TRADIZIONE AMMINISTRATIVA E STATO SOCIALE
Anche in Senegal si ha l’impressione di appartenere a una nazione unica nonostante sia composta da diverse popolazioni. C’e’ un aspetto particolare che mi permette qualche ulteriore riflessione: se in Tunisia la lingua comune è l’arabo in Senegal l’unica lingua parlata in tutto il paese (anche se, forse, non dappertutto) è il francese. In entrambi i paesi nelle scuole statali si impara il francese assieme alla lingua popolare.

Credo che non sia indifferente per la storia di questi paesi il fatto che l’affermazione dell’indipendenza nazionale e la successiva costruzione dello stato e della sua amministrazione siano state guidate per una lunga stagione da due uomini: Leopold Senghor e Habib Bourghiba, entrambi formatisi alla Sorbona capaci di acquisire, trasmettere e innestare la cultura politico-amministrativa francese assieme al senso di orgoglio e dignità nazionale. Aggiungerei anche l’importanza delle politiche per il pieno riconoscimento della dignità e dei diritti e della libertà delle donne promosse da entrambi. E’ normale in Tunisia incontrare gruppi di donne e ragazze che passeggiano assieme che possono indifferentemente essere a testa scoperta, inossare chador o anche a guanti e calze.

Un funzionario statale della regione di Tozeur al quale abbiamo chiesto una spiegazione sul perché l’evoluzione democratica successiva alla rivoluzione si stia svolgendo in un clima, tutto sommato, pacifico ci ha risposto che il principale motivo risiede nella consolidata cultura nazionale e indipendente dal potere politico della maggioranza dei quadri amministrativi, che ha garantito la coesione sociale. Non posso affermare con certezza che ciò sia del tutto vero ma posso dire di essermi reso conto del valore percepito e dell’importanza della diffusione sia in Senegal sia in Tunisia della scuola pubblica laica e del sistema sanitario anche nei piccoli villaggi e in zone relativamente remote dei due paesi.

Mi hanno fatto una certa impressione entrare in una scuola elementare del Sud della Tunisia e leggere un cartellone in arabo e francese con questo testo “Siamo diversi ma abbiamo tutti gli stessi diritti. Viviamo in pace” così come uno striscione appeso fuori dalla piccola stazione di Metlaoui “La protezione sociale è un diritto di tutti i cittadini”. Rappresentano un richiamo alle nostre “origini” piuttosto utile e apprezzato in quest’epoca in cui Stato e diritti universali non godono di particolare favore nell’opinione corrente.

DOVE C’E’ CONTAMINAZIONE
Una volta superata la prima barriera dell’esotico e l’impatto, specie a Dakar, di sentirsi etnicamente in minoranza, e ci si muove liberamente e “normalmente” incontrando e scambiando parole, commenti, opinioni con i residenti ci si rende conto sia a in Senegal che in Tunisia di non essere cosi tanto diversi dagli altri e di non essere così estranei alla realtà che ci circonda e questo avviene non solo in città ma anche nei villaggi in luoghi che ci appaiono distanti e alieni.
In questo forse aiuta anche essere nati e cresciuti in un paese come il nostro che inizia nella Mittel Europa e finisce a poche miglia dalle sponde sud del Mediterraneo e che ha una lunga storia di emigrazione . In realtà il fattore più importante è rappresentato dalla mobilità di Tunisini e Senegalesi e anche della attrattività che questi paesi hanno per persone provenienti da altri luoghi.

Dakar e Tunisi sono città multi-etniche, (dove peraltro non è difficile incontrare persone che parlano italiano) dove non è raro ad esempio incontrare famiglie composte da bianchi e neri e nelle quali lavorano e vivono persone provenienti almeno da tre continenti. Tuttavia l’elemento più importante che rende cosmopoliti questi paesi è rappresentato dai flussi migratori e, in particolare, negli ultimi anni, da coloro che dopo 20-30 anni di vita all’estero tornano a vivere nel luogo di origine portandosi cultura, e punti di vista piuttosto cambiati che modificano, relativizzandole, le consuetudini e le regole sociali. Nel tempo quindi si sono realizzati, non senza conflitti e contraddizioni, dialettiche e processi di contaminazione che rappresentano fattori di stabilità equilibrio e di convivenza pacifica.
Insomma le migrazioni, associate ad adeguate e inclusive politiche di accoglienza, costituiscono il cemento e le fondamenta della convivenza pacifica planetaria e del reciproco riconoscimento.

IL TERRORISMO E’ UNA QUESTIONE RELIGIOSA O ECONOMICA E’ UNA RIVOLTA DELL’ARCAICO CONTRO IL MODERNO?
Vi sono due spiegazioni piuttosto diffuse che tendono a contrapporsi nel cercare di dare un senso e una spiegazione all’affermazione del terrorismo del califfato, che in maniera semplificatoria possono essere sintetizzate da un lato nel rappresentarla come una evoluzione naturale e radicale del fondamentalismo islamista e dall’altro come reazione a un politica di rapina operata dalle potenze occidentali che hanno prima sostenuto regimi dittatoriali e successivamente portato la guerra.

L’altro elemento che viene richiamato, spesso in associazione alla spiegazione “religiosa” è di una rivolta motivata da un substrato culturale precedente all’illuminismo, un richiamo a pratiche arcaiche medievali, una reazione disperata alla modernità.
Entrambe le spiegazioni trovano evidenze e drammatiche nelle stragi di innocenti cristiani e copti, nei continui richiami alla Jihad e alla Sharia nel linguaggio e nelle pratiche di Alqaedisti e Califfati e nello stato di miseria e deprivazione profonde in cui versano gran parte delle popolazioni dei territori in cui il terrorismo trova terreno fertile, fino alle grottesche conferenze di improbabili immam contro le teorie galileiane.

E’ assolutamente vero, inoltre, che vi sono stati e territori, nel complesso più ampi dell’intera Europa, che quasi da due generazioni sono state sempre attraversate da guerre e conflitti armati (questo vuol dire milioni di persone nate e cresciute senza avere esperienza della pace).
E’ anche vero che vi sono situazioni in cui le condizioni di sopravvivenza delle popolazioni non sono affatto migliorate in seguito di “pacificazioni” più o meno armate (in Iraq e in Afganistan come nella città di Timbuctu e così come è avvenuto per i Tuareg a seguito degli accordi del trentennio scorso).
Nonostante ciò queste spiegazioni non sono da sole sufficienti a spiegare il fenomeno.

Tutti i tunisini coi quali abbiamo palato dei motivi per cui si decide di affiliarsi a organizzazioni terroristiche e che conoscono giovani che hanno deciso di aderire alle formazioni del califfato sono concordi nell’affermare che non è una questione religiosa. La maggioranza di coloro che aderiscono a formazioni terroristiche è composta da giovani tra i 17 e 22-23 anni che non “hanno mai letto neanche un versetto del corano” che fino a pochi mesi prima della loro decisione facevano una vita assolutamente normale (“alcuni bevevano anche alcool e mangiavano maiale”), frequentavano le altre compagnie di ragazzi, suonavano, facevano tardi la notte.

Anche il film Timbuctu, che ha il pregio di illustrare nella sua quotidianità il significato diretto per la vita di tutti i giorni della dominazione Alqaedista, mostra con estrema evidenza l’assoluta rozzezza e ignoranza sul piano religioso degli occupanti.
E neanche la questione economica e la miseria spiegano le motivazioni all’affiliazione. Un altro tunisino con cui ho parlato è stato particolarmente netto e illuminante: “d’accordo c’è disoccupazione, ma anche prima - sotto Ben Alì - c’era disoccupazione, anzi ce n’era più che adesso solo che ora ognuno almeno ha la libertà di parlare di protestare e possiamo avere la prospettiva che le cose migliorino. Non può essere per questo che uno va con Isis”.

D’altra parte non si spiegherebbe certo con le condizioni di miseria il fenomeno dei Foreign fighters o dei giovani terroristi autori dell’assalto a Charlie Hebdo.
Ancor meno convincente è l’idea di una rivolta dell’arcaico contro il futuro, una reazione alla modernità. Se è vero che la gran parte dei nuovi affiliati alle organizzazioni terroristiche sono giovani provenienti da realtà urbane (che siano occidentali orientali, settentrionali o meridionali non cambia) vuol dire che stiamo parlando di nativi digitali e l’utilizzo dei media e di internet che Isis sta facendo ne dimostra in parte la sua “modernità”.
La questione è quindi un po’ più complessa e magari quello che sto per dire non contribuisce a chiarire le cose. Ma forse, proprio guardando alla prima e chiara e incontrovertibile evidenza: quella cioè che siamo di fronte a un fenomeno che coinvolge direttamente e principalmente giovani e giovanissimi, mi viene da dire che qualche spiegazione in più andrebbe cercata nel considerare, valutare e interpretare le condizioni, le aspirazioni e l’immaginario collettivo dei giovani e giovanissimi che vivono dentro e ai margini delle metropoli globalizzate.

Mi viene in mente che lavorare sulla comprensione (e magari per il cambiamento) delle idee e delle aspirazioni che i ragazzi hanno del proprio futuro e il valore che attribuiscono alla propria e altrui esistenza siano essi nelle periferie Londinesi e Parigine o a Damasco, Tripoli, Bagdad, potrebbe aiutarci a capire e a dotarci degli strumenti necessari a prosciugare almeno un po’ del brodo di coltura delle cellule terroristiche.