Stefano viene trovato in possesso di alcuni grammi di hashish e di cocaina e di alcuni farmaci per curare l’epilessia, di cui soffriva. Viene portato nella caserma di via del Calice e da lì accompagnato a casa per la perquisizione. La perquisizione non dà risultati e i genitori, che in quel momento lo trovano in buone condizioni, si preoccupano che sia riuscito ad avvisare il suo avvocato in vista del processo per direttissima del giorno seguente. I carabinieri rispondono che è stato fatto. Sarà l’ultima volta che sua madre lo vedrà vivo.

Il giorno successivo Stefano viene portato in tribunale per l'udienza di convalida dell'arresto. Il padre nota sul suo viso dei segni intorno agli occhi. Stefano appare stanco e provato. Alla fine dell'udienza le sue condizioni di salute destano preoccupazione e per questo viene fatto visitare dal medico del tribunale. Nelle ore successive fa ingresso in carcere e viene visitato nell’infermeria di Regina Coeli, che dispone un immediato trasferimento al pronto soccorso del Fatebenefratelli per accertamenti. Stefano rifiuta il ricovero ma il giorno seguente le sue condizioni di salute sono sempre più preoccupanti e deve sottoporsi ad altre visite, fino al ricovero nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini. Per sei giorni i familiari non ricevono notizie. Il 22 ottobre 2009 Stefano Cucchi muore nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. 

Dal giorno del suo arresto fino alla sua morte Stefano Cucchi ha attraversato un numero elevato di luoghi istituzionali e di apparati dello Stato: due caserme dei carabinieri, le celle di sicurezza, le aule e l’ambulatorio del Tribunale di Roma, l’infermeria e una cella del carcere di Regina Coeli, il pronto soccorso del Fatebenefratelli, il reparto detentivo del Sandro Pertini. 

All'incirca 11 luoghi delle istituzioni: nessuno lo ha preso in carico, nessuno si è preoccupato della sua sofferenza. Stefano è stato lasciato solo da chi avrebbe avuto il dovere di prendersene cura.

Subito dopo la morte di Stefano A Buon Diritto entrò in contatto con la famiglia Cucchi. 

Il 26 ottobre 2009, quattro giorni dopo la morte di Stefano, il nostro presidente Luigi Manconi e il presidente dell'Associazione Antigone, Patrizio Gonnella, inviarono un'agenzia all'Ansa in cui denunciavano pubblicamente che al momento dell'arresto Stefano stava bene, camminava sulle sue gambe, mentre il giorno dopo il padre aveva notato aveva notato tumefazioni al volto e agli occhi.

Manconi e Gonnella, chiedendo verità, con quell'agenzia Ansa chiesero di sciogliere il nodo e di fare chiarezza su quello che era successo dopo la perquisizione e prima dell'arrivo in aula. E quel comunicato scatenò, secondo il pm Musarò, "un putiferio" all'interno dell'Arma dei Carabinieri. E già da lì partirono le prime menzogne e ingerenze.

Il 29 ottobre 2009, dopo aver ricevuto l’autorizzazione da parte della famiglia, distribuimmo nel corso di una conferenza stampa al Senato le prime foto del corpo martoriato di Stefano, ritenendo che proprio la visione di quel corpo avrebbe potuto contribuire a fare breccia nel silenzio e nell'indifferenza. 




Dal 2009 ad oggi A Buon Diritto ha continuato a supportare la famiglia Cucchi mediando con le istituzioni e con i mezzi di informazione, sensibilizzando l’opinione pubblica, organizzando dibattiti e conferenze stampa, redigendo articoli e saggi. La storia di Stefano è raccontata anche nel libro “Quando hanno aperto la cella. Storie di corpi offesi. Da Pinelli a Uva, da Aldrovandi al processo per Stefano Cucchi” (2011), a cura di Luigi Manconi e Valentina Calderone, presidente e direttrice di A Buon Diritto. 

La strada per arrivare ad ottenere verità e giustizia per Stefano Cucchi è stata lunga e travagliata. Dopo un primo processo in cui ci si è concentrati esclusivamente sulle responsabilità della polizia penitenziaria e dei medici, grazie all’impegno e alla determinazione della famiglia Cucchi e dell’avvocato Fabio Anselmo si è arrivati all’apertura di un processo bis. 

Il 14 novembre 2019 la Corte d’Assise di Roma ha condannato in primo grado a 12 anni per omicidio preterintenzionale due carabinieri, Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro. Il 7 maggio 2021 la Corte d'Assise d'Appello di Roma ha confermato la condanna per omicidio preterintenzionale dei due carabinieri innalzando da dodici a tredici anni la pena stabilita in primo grado. Sono state confermate anche le condanne per falso nei confronti di altri due carabinieri coinvolti. 

Attualmente è in corso l'inchiesta-ter sui depistaggi portati avanti dopo la morte di Stefano, che ha visto il rinvio a giudizio di otto militari dell'Arma con le accuse di falso ideologico, omessa denuncia e favoreggiamento, falso ideologico e calunnia.

Dopo anni di bugie e depistaggi, l'instancabile lavoro della Procura di Roma e del pm Musarò e la costante tenacia della famiglia Cucchi hanno portato a fare chiarezza sull'intero sistema che per troppo tempo ha coperto e giustificato i responsabili della morte di Stefano. 

Ora ci auguriamo sia fatta, finalmente, piena giustizia.