Pubblicato in 2022, Le notizie del portale a buon diritto il 17 nov, 2022

Katiuscia Favero, una storia dolorosa ancora in attesa di verità

Katiuscia Favero, una storia dolorosa ancora in attesa di verità | A Buon Diritto Onlus

Il 17 novembre 2005 alle 9 di mattina Maria Patrizia Favero chiama l’Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova, dov’è ricoverata sua figlia. Vuole parlare con l’assistente sociale perché ha bisogno di alcuni documenti. 

Si presenta, dice di essere la madre di Katiuscia Favero, ma nella prima telefonata le viene detto che l’assistente sociale non è ancora arrivato. Riprova una seconda volta e riceve la stessa risposta. Tra le 11.30 e le 12 telefona per la terza volta. Chiede nuovamente dell’assistente sociale, ma le viene passato un medico.

«Signora, sua figlia ha fatto una birichinata. Questa volta l’ha combinata proprio grossa.»

«Cos’è successo?»

«Si faccia coraggio signora, sua figlia è morta, si è suicidata ieri sera.»

Ma facciamo un passo indietro. Inizio del 2002: Katiuscia Favero, trentenne, viene condannata per il furto di un orologio ma dato il suo stato di salute - la ragazza ha un disturbo borderline della personalità - viene ritenuta non idonea al carcere e destinata, quindi, all’Opg di Castiglione delle Stiviere. Qui nel febbraio del 2002 denuncia un medico per molestie e due infermieri per violenza sessuale. 

Il giorno successivo alla denuncia due medici dimettono la paziente determinandone il ritorno nel carcere di Pontedecimo. La ginecologa del carcere parla con Katiuscia, lei però inizialmente non vuole farsi visitare. Venti giorni dopo le viene proposta una seconda visita e questa volta Katiuscia acconsente. Nonostante siano passati molti giorni, la ginecologa evidenzia «abrasioni» e «lesioni interne». Ma il certificato, inserito nel diario clinico della Favero, sarà dichiarato disperso.

I due infermieri accusati della violenza sessuale non sanno fornire un alibi né indicare un testimone della loro versione. Uno dei due verrà trasferito in un’altra struttura, gli altri imputati manterranno il loro posto di lavoro all’interno dell’Opg di Castiglione delle Stiviere.

Tre anni dopo, quando la pena detentiva è finita, anziché essere rimessa in libertà Katiuscia verrà dichiarata pericolosa per sé stessa  e per gli altri e le verrà imposto, nuovamente, un periodo di osservazione in ospedale psichiatrico giudiziario.

Pur se in un altro reparto Katiuscia viene rimandata in quella stessa struttura dove aveva denunciato di aver subito molestie e violenze sessuali, nonostante le indagini per accertare lo svolgimento di quei fatti fossero ancora in corso.

È difficile immaginare quali siano in quel momento le sensazioni di Katiuscia: aveva scontato la sua pena e vedeva la libertà a portata di mano. E invece viene riportata nel luogo che le aveva procurato tanta sofferenza. Da lì, come racconta a sua madre, trascorre quasi l’intero periodo legata a un letto di contenzione, anche per i più futili motivi: per aver utilizzato una scheda telefonica non sua, per aver bevuto caffè o Coca-Cola, per aver mangiato una caramella.

Katiuscia Favero sarebbe dovuta uscire da Castiglione delle Stiviere il 28 novembre 2005. Il 16 novembre la madre riceve una telefonata allarmata: «Mamma portami via da qui. Aiutami, non ce la faccio più. Ho paura. Stanno succedendo cose strane». Patrizia prova a rassicurarla. Le ricorda che da lì a tre giorni sarebbe andata a trovarla e le consiglia, nel frattempo, di stare sempre vicino a qualcuno e di non rimanere mai sola. 

Saranno le ultime parole che Patrizia potrà dire a sua figlia. Katiuscia Favero morirà la sera stessa. Il suo corpo verrà ritrovato nel cortile dell’Opg, di notte, il collo dentro un cappio ricavato da un lenzuolo bagnato, il lenzuolo legato a una grata malferma e precaria.

La madre non crede per un solo istante, e mai crederà, al suicidio della figlia. Va prima all’Opg e poi in una stazione dei carabinieri lì vicino per denunciare l’accaduto. Un maresciallo prova insistentemente a non farle richiedere l’autopsia. Le dicono che il pubblico ministero non vuole disporla e che va bene così, dato che il medico di guardia (lo stesso denunciato nel 2002 per molestie) non ritiene necessario l’esame autoptico in quanto la morte «è da imputarsi alla rottura dell’osso del collo. 

Questa ipotesi non verrà confermata dal medico incaricato di effettuare l’esame autoptico, che indica quale causa della morte «impiccagione semi-completa con soffocamento derivato da aspirazione di materiale gastrico dalle vie aeree».

Da quel 17 novembre Patrizia Favero percorrerà tutti i giorni le centinaia di chilometri che la separano dall’Opg, decisa a non farsi intimorire e pretendendo che vengano compiuti tutti gli accertamenti necessari per fare chiarezza sulla morte della figlia.

Troppi sono i dettagli che non tornano. Nessuna rilevazione è stata effettuata sul luogo della morte. Il lenzuolo con cui si sarebbe impiccata Katiuscia non è stato sequestrato, non è stato fatto alcun sopralluogo nella sua camera. La stanza è stata subito imbiancata, nonostante fosse stata ritinteggiata di recente, e completamente svuotata di tutto, compresi i diari personali di Katiuscia che sono stati successivamente riconsegnati, privi di pagine palesemente strappate.

Quando Patrizia Favero ha visto il corpo della figlia ha notato alcuni particolari: intorno al collo un segno molto sottile, quello che può lasciare una corda, più che un lenzuolo; dietro la testa una ferita lacero contusa, che nessuno ha saputo spiegare; nel braccio, il segno di una puntura. I campioni prelevati dalle unghie di Katiuscia sono spariti. Non sono stati analizzati, nel fascicolo non ce n’è traccia.

Il pm che per primo si è occupato del procedimento aperto per omicidio volontario, che aveva richiesto l’autopsia e il sequestro di reperti, è stato trasferito. Il suo successore si è limitato a rigettare le richieste di nuovi esami clinici e le integrazioni di prove, concludendo rapidamente per l’archiviazione.

Con una lettera alla procura generale di Brescia Patrizia Favero chiede la riapertura delle indagini. Il processo civile si è concluso con una transazione extragiudiziale e con l’offerta da parte dell’Opg di una somma di denaro. Dell'esposto in procura non si è più saputo nulla.

La storia di Katiuscia Favero è dolorosa, a tratti incredibile. Si fatica ad accettare che le sia accaduto tutto quello che le è accaduto e che ancora oggi non sia emersa tutta la verità.


L'estratto che avete letto è tratto dal libro "Quando hanno aperto la cella", scritto dal nostro presidente Luigi Manconi e dalla nostra direttrice Valentina Calderone, che hanno ricostruito dettagliatamente la vicenda di Katiuscia e di troppe altre persone morte quando erano sotto la custodia dello Stato e dei suoi apparati.

Una cosa possiamo e dobbiamo farla: continuare a raccontare queste storie, non dimenticare, non smettere di chiedere che sia fatta chiarezza, e giustizia.